immagine e (menzogna del) tempo
"le fotografie possono essere ricordate più facilmente di immagini in movimento perché sono una precisa fetta di tempo anziché un flusso".
Generalità, contenuta in un celebre saggio, dalla quale proietta, proficuamente allontanandosene, il complesso differire.
Quando, come in questo caso, riprendo la scena con strumenti progettati per l’esattezza realizzativa non è per catturare una preda o per appropriarmi di uno status quo da ostentare poi trofeo invariato, invariabile: il pezzo anatomico congelato, scarto principe della vivisezione con l’arma affilata dell’estremismo tecnico. Accompagno quella pretesa aleatoria fino al confronto più umile (talvolta umiliante, ma più costruttivo), con se stessa. Con la sua illusione.
Certo, si tende alla connessione con l’unità costitutiva e percepibile dell’amputazione di una scelta compositiva, di quel sottrarre (perché non ho fotografato altro?). Giungendo poi a una proposta, interdipendente, del divenire, della relazione.
Una promozione leale e sovversiva nell’abbraccio asintotico al vacuo di “Alice [che] non cresce senza rimpicciolire, e viceversa”.